Devo alla cortesia dell’amico Antonio Segnini la possibilità
di leggere due documenti per me inediti relativi al delitto di Signa (qui).
Si tratta
della richiesta di rinvio a giudizio di Stefano Mele avanzata dal sostituto
procuratore Antonio Spremolla in data 30 settembre 1969 e della conseguente
sentenza di rinvio a giudizio pronunciata dal consigliere istruttore Gian
Gualberto Alessandri il successivo 6 novembre. Sono quindi in debito ai lettori
del mio “Volume I” di un aggiornamento.
In verità, tali documenti apportano ben poco di nuovo al
quadro già conosciuto, ma permettono forse di entrare meglio nell’idea che del
caso si erano fatta gli inquirenti; Spremolla e Alessandri sono infatti i due
magistrati che, a parte i primi atti immediati, condussero, in un ruolo che
all’epoca era concomitante, l’istruttoria.
Riassumo sinteticamente di seguito le risultanze
dell’indagine, con qualche spunto critico.
Secondo gli inquirenti la presenza del Mele è certa, provata
da quattro elementi: la conoscenza del luogo del delitto per avervi condotti i
carabinieri in sede di sopralluogo; la conoscenza del numero dei colpi sparati;
il particolare della scarpa del Lo Bianco (vedi infra); il particolare della
luce di direzione accesa; Spremolla aggiunge la conoscenza dello stato dei
vetri dei finestrini, la conoscenza della posizione dei corpi. A ben guardare,
sono tutti elementi già presenti nel rapporto Matassino, quindi si potrebbe
dire che le indagini successive non hanno apportato nulla di nuovo rispetto a
quanto prospettato nel rapporto giudiziario del 21 settembre 1968.
Le accuse ai fratelli Vinci e a Carmelo Cutrona sono
calunniose, come dimostra la variazione dei soggetti a seconda delle
circostanze. E’ qui importante un passaggio, peraltro già noto, di Spremolla:
“l’accusa contro il Vinci Francesco viene meno quando il Mele viene richiamato
a un maggior senso di responsabilità e suggestionato
dall’esito di un accertamento peritale nei confronti del Cutrona, lo accusa
(…)”. Si parla naturalmente della prova del guanto di paraffina, che diede
esito positivo per Cutrona (e negativo per Francesco Vinci). Siamo al 26 agosto
e a questo punto Mele ha già cambiato cinque versioni: da una prima
dichiarazione di totale inconsapevolezza del fatto, ha accusato Salvatore
Vinci, si è poi autoaccusato (senza citare alcun complice; in sede di
sopralluogo, passaggio su cui Matassino sorvola, ma viene citato da Spremolla –
sulla base di quale documentazione non si sa, visto che, a dire di Rotella, non
esiste un verbale di sopralluogo), indi ha chiamato in correità Salvatore, poi
lo ha discolpato e accusato Francesco. Ma insomma, quante siano le versioni, a
partire dalla confessione (quattro schiaffoni?) esse sono tutte suggerite
dall’esterno; il passaggio da Salvatore a Francesco per la notizia dell’alibi
di Salvatore (leggasi partita a biliardo con Antenucci), quello da Francesco a
Cutrona in seguito all’esito del guanto di paraffina.
Questa estrema facilità di adeguamento del Mele agli
sviluppi dell’indagine (ad esempio, ammetterà prontamente di aver accompagnato
lui Natalino non appena saprà che il bambino lo ha confessato nel corso della
ben nota passeggiata in compagnia del mar.llo Ferrero), rilevata da Spremolla,
condizionerà tutte le indagini post 1982 e il non essersene reso conto
costituisce a mio parere il più grave errore commesso da Rotella. Bisogna
sempre tener presente che al Mele fu diagnosticata dai periti un’oligofrenia di
grado medio, quindi quello che abbiamo recentemente scritto su queste pagine a
proposito della testimonianza Pucci ( qui ) vale interamente anche per le dichiarazioni
del Mele.
Quanto a Natalino, Spremolla e Alessandri non credono a
Natalino 3 (lo zio Piero). Spiega Alessandri: “Né può prestarsi fede alle
indicazioni di Natalino Mele su un certo Mucciarini Pietro, (…). L’esame
psicologico, cui è stato sottoposto il minore, mentre spiega clinicamente certe
amnesie manifestate dal bambino nei suoi esami (ossia gli interrogatori dell’aprile
- maggio 1969) ammette che il ricordo dei fatti da parte dello stesso possa non
essere obiettivo”. Apprendiamo quindi che vi fu una consulenza psicologica su
Natalino, della quale nulla sappiamo (almeno io; chi ha letto il libro
ricorderà che contiene un’intervista con
una psicologa dell’età evolutiva incentrata sull’argomento). Ovviamente, gli
inquirenti non si pongono il problema di quanto spontanea e veritiera sia stata
la “confessione” al maresciallo Ferrero.
Altri particolari poco noti che emergono dai due documenti
sono i seguenti. Mele sarebbe stato al corrente del luogo dove la moglie era
solita appartarsi con gli amanti. “(Mele) era consapevole, per averglielo
rivelato la moglie, e in altra occasione il Vinci Francesco, come essa fosse
solita recarsi ad amoreggiare nella località dove è avvenuto il fatto; questa
località era comunque raggiungibile anche a piedi (!), se non con la bicicletta
del Mele stesso” (Spremolla). Considerando anche il tragitto fino a casa De
Felice sarebbero comunque circa 14 km. La fonte di questa informazione può solo
essere Stefano Mele, va quindi presa con le molle.
Un altro aspetto critico che il P.M. cerca di giustificare è
la vexata quaestio dei colpi sparati
contro la Locci. Come si sa, infatti, tre colpi hanno direzionalità da sinistra
a destra, uno, quello alla spalla, da destra a sinistra. Secondo Spremolla,
probabilmente sulla base della famosa perizia balistica Zuntini che quasi
nessuno ha letto, “il primo colpo di pistola la raggiunse alla spalla fermandosi
in cavità scapolare. Esso immobilizzò la donna che si rovesciò sul fianco
destro esponendo all’arma la faccia posteriore dell’emitorace sinistro
raggiunto da un secondo colpo con traiettoria dal basso verso l’alto (…) la vittima
fu poi in analoga regione raggiunta da altri due colpi”. Il problema è però il
solito; perché la VF venga colpita alla spalla sinistra da uno sparatore che
faccia fuoco dal lato sinistro dell’auto bisogna che sia girata verso il
parabrezza o quanto meno verso la portiera destra. Scrive De Fazio: “all’inizio
dell’azione omicidiaria la donna poteva essere in qualche modo protesa dal
sedile sx a quello dx col busto ed il capo verso il corpo dell’uomo”; proprio
questa sembrerebbe del resto la posizione in cui Mele fece disporre i due
sottufficiali dei CC nella famosa simulazione. Non mi addentro in altri
tentativi di ricostruzione, che sono al di sopra delle mie capacità, ricordando
che sul sito “Calibro 22” di Master se ne può leggere uno molto approfondito ( qui ).
Un altro particolare che viene dato per assodato dai due
magistrati è che la Locci pagò il cinema; ciò nell’ottica di dimostrare che il
delitto era nato da questioni di interesse e non per gelosia/onore. Questo
elemento è ripreso però dall’interrogatorio di Natalino, poiché il gestore del
cinema aveva dichiarato che a pagare era stato il Lo Bianco; si tratta di un
particolare a mio giudizio poco importante.
La scarpa del Lo Bianco merita un piccolo approfondimento.
Sappiamo dal verbale di sopralluogo di Ferrero che quando il maresciallo aprì
la portiera sinistra, una scarpa del Lo Bianco cadde a terra, il che significa
che era rimasta in bilico all’interno; ma Lo Bianco si era trasferito a destra
sul sedile reclinato del passeggero. Matassino attribuisce lo spostamento di
quest’unica scarpa all’azione di Mele, che, come lui stesso afferma, ha
parzialmente ricomposto i corpi. L’episodio è ricordato anche da Rotella nel
descrivere la confessione del Mele. Senonché la scarpa viene trovata dentro l’auto;
ma Mele, nell’interrogatorio del 3 febbraio 1969 dinanzi al G.I., testualmente
dice: “Poi il Vinci aprì lo sportello e ricordo che cadde una scarpa del lo
Bianco, che si lasciò lì”. In questo interrogatorio non vi è menzione della
ricomposizione dei cadaveri e la scarpa cade da sola e rimane fuori; una scena
diversa da quella trovata da Ferrero al suo arrivo sul luogo del delitto. La
spiegazione più semplice è che Mele abbia menzionato il particolare della
scarpa involontariamente tolta al Lo Bianco reagendo a una suggestione in corso
di sopralluogo del 23 agosto e abbia poi dimenticato la spiegazione; i
particolari inventati e non frutto di esperienza vissuta si dimenticano più
facilmente.
L’interrogatorio del 3 febbraio è anche interessante per il
passaggio finale: “Invitato a spiegare la ragione per cui invece di portare a
casa il bambino lo abbia invitato a suonare a quell’abitazione dopo quanto era
accaduto, l’imputato si stringe nelle spalle e non risponde”. Se ne può
concludere che, se l’accompagnamento c’è stato, Stefano può anche averlo
materialmente eseguito, ma non ne conosce il motivo; o può non saperne nulla
perché non si trovava sul luogo (quale errore fecero i CC a non fargli
ripercorrere la strada che portava a Sant’Angelo a Lecore nell’immediatezza,
per sincerarsi della sua effettiva conoscenza del percorso!); o, infine, il
bambino è andato da solo.
Alla fine, cosa dovremmo ricavare di nuovo da questi
documenti, come pure dai nuovi passaggi degli interrogatori di Mele contenuti
nella prima parte del volume “Al di là di ogni ragionevole dubbio” (libro che
ogni mostrologo dovrebbe studiare in maniera approfondita)? Soprattutto la
totale inaffidabilità delle diverse versioni di Stefano Mele, sulla quali non è
possibile fondare alcuna ipotesi. In altre parole, quando Mele accusa altri di
correità, non è attendibile; che abbia commesso il delitto da solo viene
rifiutato da tutti (a parte gli inquirenti dell’epoca); nasconde un segreto,
come credeva Rotella o, più semplicemente, non sa nulla? Il suo non sapere e
parlare a vanvera scagiona gli altri sospettati? Solo in parte; infatti
ciascuno degli amanti della Locci – noti e ignoti – o altri soggetti –
familiari e non - poteva avere le
proprie ragioni per uccidere la donna indipendentemente dalla partecipazione del
marito al delitto.